“Se incontri il buddha per la strada, uccidilo”.
Quando era piccola, Lucilla aveva letto questa frase su uno dei libri buttati sul comodino di sua madre. Le era sembrata una affermazione stranissima e ne aveva chiesto il significato. Clelia le aveva immediatamente dato la sua interpretazione in maniera molto semplice:
- Vedi, Lucilla, quando io medito, non devo cercare di vedere buddha. Devo svuotare la mente. Devo cercare quello che è dentro di me, non quello che è fuori. Qualsiasi visione, soprattutto se rappresenta qualcosa che ci piace, qualcosa che vogliamo raggiungere... è soltanto una distrazione. Meglio ucciderla subito, no? -
A Lucilla, tutto ciò che somigliava a una religione non era mai interessato, quindi non aveva approfondito ulteriormente l’argomento. Soltanto ora, a distanza di parecchi anni, le era tornato in mente quel discorso.
Si trovava in una libreria esoterica e cercava disperatamente un libro sulla meditazione che facesse per lei.
Finì con l’acquistare alcune resine e un nuovo incensiere per bruciarle: non era riuscita a provare interesse per nessuno dei testi che aveva sfogliato.
Ormai aveva un lavoro, aveva iniziato a vestirsi decentemente e viveva sola.
Stava per compiere ventidue anni e non aveva una sola allucinazione da quando ne aveva sedici.
Nel frattempo si era diplomata con il minimo dei voti e aveva abbandonato la carriera scolastica; attualmente era molto soddisfatta della sua scelta controcorrente sebbene, a distanza di qualche mese dagli esami di maturità, avesse avuto l’impressione di aver sbagliato tutto. Aveva cercato un lavoro, l’aveva trovato e aveva dovuto ammettere che telefonare a gente sconosciuta per sei ore di fila, nella speranza di piazzare appuntamenti ai venditori della sua azienda, non era divertente come vendere cosmetici a scuola. I lavori di quel tipo, non facevano proprio per lei. In breve tempo, però, era arrivata la proposta giusta: la sua vecchia insegnante di equitazione cercava aiutanti per metter su un maneggio appena fuori Torino, in uno dei tanti paesini della prima cintura.
Molti coetanei di Lucilla avrebbero storto il naso all’idea di passare la giornata a sellare i cavalli per i bambini, ma lei si trovava molto bene: quel lavoro non era eccessivamente monotono e le permetteva di frequentare un ambiente che amava.
Dopo alcuni mesi, in cui Lucilla aveva fatto la pendolare, un’amica di famiglia le aveva proposto di trasferirsi nel suo vecchio appartamento, appena rimasto sfitto. Si trattava di un piccolo bilocale in centro, a ridosso della stazione di Porta Nuova. L’alloggio era al piano terra di un grosso palazzone: vi si accedeva direttamente dal cortile interno, trovando, subito dietro la porta d’ingresso, un unico locale che fungeva da cucina, sala da pranzo e salotto; salendo una scala a chiocciola, un pianerottolo di un metro quadrato divideva la piccola camera da letto dal bagno. I soffitti erano così bassi che c’era il rischio di battere la testa, azzardando anche solo un piccolo salto. Le pareti erano pitturate di blu ciano e dalle finestre entrava parecchia luce. A Lucilla era piaciuto subito.
Così aveva iniziato quella nuova vita e, ogni giorno, se ne usciva di casa vestita in maniera molto semplice e comoda: per via delle sue mansioni, jeans e anfibi erano diventati la sua divisa.
All’interno della neonata scuderia “La piccola quercia”, oltre alla titolare Elena e alla sua ex allieva Lucilla, lavoravano due giovani insegnanti di equitazione, freschi di brevetto, e un vecchio maniscalco che si faceva vivo soltanto una volta al mese, per occuparsi della ferratura. La squadra era piccola ma affiatata e le cose stavano funzionando bene. I clienti abbondavano, anche per via dell’ambiente caldo e accogliente di quel posto: spesso si organizzavano cene, feste, serate di musica dal vivo con la partecipazione dei numerosi gruppi esordienti che abbondavano nella città limitrofa.
Lucilla non si perdeva un evento: non aveva mai più abbandonato l’abitudine che aveva da ragazzina, di star sempre fuori casa e di dedicarsi con piacere a tutto ciò che suonava divertente e poco impegnativo.
Le cose le giravano talmente bene che spesso si sorprendeva quando uno strano senso d’insoddisfazione la coglieva all’improvviso, prendendole lo stomaco. Nella frivola mente di Lucilla, esisteva infatti una realtà alternativa dove lei e Fantasy s’incontravano, si amavano, stavano assieme.
Ogni volta si ritrovavano in modo diverso, quasi sempre s’innamoravano all’istante l’una dell’altra. Le fantasticherie di Lucilla potevano andare avanti per giorni, sempre più complicate, sempre più elaborate, fino a sfociare in qualche balorda situazione drammatica che vi poneva fine. Dopodiché un nuovo inizio, ancora una volta: nuove situazioni, stessa splendida amante dai capelli rossi.
Inevitabilmente, però, c’erano giorni in cui Lucilla veniva riportata alla realtà. Prima reagiva il suo corpo, facendole contrarre le budella ed esplodere il cuore; poi la sua mente elaborava quello stato d’ansia, le diceva che Fantasy non c’era, che non ci sarebbe mai stata. Lucilla comprendeva all’improvviso che non le importava nulla dell’ultimo ragazzo che si era rimorchiata, che non l’era importato nulla di tutti quelli venuti prima di lui.
In quei giorni, Lucilla aveva voglia anche di piangere, però non ci riusciva: continuava a ripetersi che non le mancava nulla, che non c’era niente di cui lamentarsi.
Così, rabboniva la sua mente e andava avanti, fino a che tutto ricominciava.
Quel giorno, però, la sua crisi era affiorata proprio durante un pomeriggio libero: Lucilla aveva deciso di fare il possibile e l’impossibile per ritrovare la sua amata Fantasy, accettando di passare per pazza ai suoi stessi occhi...